Due parole (almeno mentalmente mi dico sempre così poi divago e sbrodolo parole a destra e a manca), su un film che ho visto sabato sera: “L’ospite intattso”.
E’ un film in cui il protagonista è un professore universitario prigioniero della propria vita monotona assolutamente scevra da emozioni, per lavoro si reca a New York dove ha un appartamento che non usa da anni. Quando vi si reca scopre che al suo interno vi alloggiano due persone Tarek (siriano) e la sua compagna Zainab (senegalese), che sono stati vittima di raggiro da parte di un amico il quale disse loro che l’appartamento era libero e in affitto. Dopo essersi chiariti con il professore, il cui nome è Walter Vale, i due si accingono a lasciare l’appartamento con tanto di scuse ma il docente, mosso da compassione visto che non avevano un posto presso cui stare, decide di ospitarli per il tempo necessario a trovare una soluzione.
Tra Tarek e Walter nasce un’amicizia basata sulla musica, Tarek suona il tamburo africano e Walter inizia a suonarlo grazie ai consigli dell’amico. Proprio quando tutto inizia a girare per il meglio, al ritorno da una suonata collettiva al parco, Tarek vine fermato in metropolitana dalla polizia. Si scopre così che i due amanti sono clandestini e inizia il calvario che vede il docente tentare di far uscire l’amico dal centro di detenzione temporanea presso cui è stato rinchiuso in attesa di provvedimenti.
Non è un film violento, è lucido, fa riflettere, mette in luce la cecità e le contraddizioni dell’ente immigrazione americano. L’opera ci mostra un’America che, smaniosa di giustizia (alias “vendetta”) per i fatti dell’undici settembre, si accanisce con irragionevolezza contro gente che con quei fatti non ha nulla a che fare; eloquente la frase da rinchiuso di Tarek che recita più o meno così: “…quelli pensano che qui dentro ci siano i terroristi ma non capiscono che i terroristi hanno soldi e sono lì fuori e ben protetti …”.
Il film vede anche il riscatto da parte di Walter della sua vita, un risveglio che lo porta a rendersi conto e ad ammettere ad un interlocutore (madre di Tarek) il vuoto e l’inutilità della sua esistenza. Vediamo un Walter, inizialmente razionale e freddo, scoprire e far uscire l’arte che c’è dentro in lui, lottare per un qualcosa di cui pian piano prende coscienza, capire che il suo cuore non è avvizzito.
Terminato il film mi è balzata per la mente una frase di una canzone di Giorgio Gaber (“Io se fossi Dio”) che mi pare calzare molto bene con il messaggio predominante passatoci dalla pellicola:
“…e mentre da una parte si spara un po’ a casaccio dall’altra si riempiono le galere di gente che non c’entra un cazzo…”